Le relazioni uomo-macchina sono destinate ad aumentare e a cambiare in modo profondo alcune delle nostre abitudini. Ogni anno sviluppiamo tecnologie sempre più all’avanguardia. Tra queste, l’intelligenza artificiale (IA) sembra sia quella che affascina di più. La sua capacità di elaborare, identificare e categorizzare le informazioni ci dà l’impressione che stia sviluppando una propria forma di intelligenza.

Siamo ancora lontani dal poter sviluppare un’IA di questo livello, ma è utile fare alcune distinzioni. Il filosofo portoghese Luis de Miranda e i suoi colleghi dell’Università di Edimburgo hanno creato l’Anthrobotic Cluster. Si tratta di una piattaforma di ricerca multidisciplinare. Il suo scopo è indagare sul rapporto tra umani, robot e sistemi intelligenti.

Ho già avuto modo di parlare del concetto di antrorobotica proposto da Luis de Miranda. Ora abbiamo l’opportunità di approfondire l’argomento grazie a un’intervista pubblicata su Futurism. Il filosofo spiega perché è importante esplorare le relazioni che instauriamo con le macchine,

 

Noi, anthrobot

Per iniziare, per coloro che non lo sanno, cos’è un anthrobot?

Anthrobot è una parola macedonia composta da anthropos per indicare l’umano e da robot. Non ho inventato io il neologismo. È stato introdotto dal roboticista Mark Rosheim pochi anni fa, come designazione tecnica per i dispositivi robotici antropomorfi, per “dispositivi simili agli umani”. Per esempio, le protesi robotiche.

Ma ho proposto di estendere il concetto in modo da prendere in considerazione due domande opportune attraverso occhi nuovi. Cos’è umano? Cos’è robotico?

“Robot” è un concetto contestato con molte possibili definizioni: filosofiche, legali, funzionali, tecniche e politiche. Credo che ognuna serva a uno scopo diverso. Eppure, considerando che un concetto come “robot” ha una storia in evoluzione e metamorfica a partire dall’invenzione teatrale del termine in un famoso spettacolo di Čapek nel 1920, potrebbe essere utile avere una definizione più o meno consensuale.

In un dialogo con i miei colleghi, il dottor Michael Rovatsos e il dottor Ram Ramamoorthy dell’University of Edinburgh informatics forum, ho proposto di definire il robot come un abilitatore algoritmico [algorithmic enabler]. Questa definizione può evolvere ed essere ridefinita. Ma ho optato per il concetto di abilitazione per la sua bivalenza nella letteratura psicologica che rispecchia molto l’apprezzamento ambivalente delle macchine nell’opinione pubblica.

Abilitare un compito può essere positivo e virtuoso, per esempio come sinonimo di facilitazione, di riduzione del lavoro. Ma abilitare è anche collegato alla nozione di co-dipendenza, dipendenza e perdita di responsabilità, quando un utente diventa troppo dipendente da altri o dalle macchine per il raggiungimento di uno pseudo-senso del sé.

Definire il robot come un abilitatore algoritmico contiene quindi una componente etica utile. Permette valutazioni in termini di conseguenze contemporaneamente buone e cattive. Affronta anche i diversi potenziali usi dei robot – legati al lavoro o per usi emotivi – robot sociali, industriali e domestici. È possibile abilitare compiti fisici, mentali o emozionali.

Allora che cos’è un anthrobot? Può essere inteso come un sistema ibrido di un collettivo umano costituito da carne e protocolli, con una zona fluttuante di incarnazione. Le istituzioni sono un anthrobot collettivo, un “manufatto di coordinamento”. Non è che solo gli esseri umani siano particolarmente dotati nello sviluppo di nuovi strumenti e tecniche.

La mia ipotesi è che gli umani sono sempre stati anthrobot. Da un lato lavorando incessantemente verso l’automazione sociale, il funzionalismo e l’organizzazione e la codificazione del reale. Dall’altro impegnandosi in dispersioni più inutili e senza strutture, creando aspirazioni creative ed emotive e svaghi.

A tal fine, che cos’è l’antrorobotica?

Si basa sulla visione filosofica degli umani come animali tecnologici per eccellenza. Codifichiamo e decodifichiamo i nostri protocolli sotto l’influenza dialettica della creazione del reale. Il nostro funzionalismo può essere chiamato robotismo collettivo. Le società umane sono organiche e artificiali e in ogni momento, come anthrobot sociali, siamo prodotti e produttori, in parte creatori e in parte creati, in parte automi e in parte agenti capaci di adattabilità, auto-attivazione e produzione di senso.

L’antrorobotica è un’ipotesi di lavoro verso una scienza interdisciplinare della formazione del mondo.

Come si differenzia l’antrorobotica dagli altri pensieri? Perché è necessaria – quale problema aiuta a risolvere o cosa ci permette di fare?

L’antrorobotica è la scelta di considerare l’intreccio uomo-macchina come collettivi organizzati e in evoluzione invece che come entità individuali separate. L’associazione non è ciò che accade dopo che gli individui sono stati definiti con poche proprietà, ma ciò che caratterizza le entità in primo luogo.È un passo consapevole lontano dall’individualismo metodologico. Gli utenti individuali co-emergono come agenti sociali dalla matrice di un processo sociale.

Non sto dicendo che questa prospettiva sia completamente nuova perché niente è completamente nuovo. L’antrorobotica è un’ipotesi che dice: guardiamo l’intreccio umano-macchina come un’unione dinamica di collettivi più o meno istituzionalizzati coinvolti in processi di creazione del mondo. L’obiettivo è di facilitare l’implementazione di forme più plurali e armoniche di forme di vita naturali-artificiali condivise.

Gli anthrobot che precedono l’età del computer, come le istituzioni, le organizzazioni, le aziende, gli stati nazionali, i rituali, i progetti collettivi organizzati, eccetera forniscono schemi che possiamo usare come modelli per la comprensione e lo sviluppo di sistemi socio-tecnici più plurali ed armoniosi.

Guardare i gruppi pre-informatici e i loro protocolli sociali, dove gli individui assumono, incarnano ed esprimono diverse forme di appartenenza o di spirito di corpo, forse fornisce i princìpi guida per la progettazione della robotica socialmente incorporata.

L’antrorobotica non è solo questione di ingegneria sociale ed etica, ma anche di politica. Se un collettivo umano è un sistema assiomatico, intrinsecamente normativo, possiamo puntare a sistemi più sani, co-creativi e virtuosi che favoriscono collaborazioni rispettose all’interno degli assemblaggi socio-tecnici.

È stato detto che il rapporto tra gli umani e la tecnologia può delle volte assomigliare a un gioco infinito in cui il risultato principale è continuare a giocare. Ci facciamo prendere dal gioco, ma possiamo anche fare un passo indietro e ricordare che i nostri giochi socio-culturali sono infatti inventati. Da chi? I nostri mondi sono, in un modo o nell’altro, co-creati da noi, sia dal nostro coraggio sia dalla nostra vigliaccheria. I nostri mondi sono i nostri anthrobot.

Dovremmo estendere la co-creazione collettiva di queste macchine sociali, come proposto ad esempio dai filosofi Deleuze e Guattari. Quest’ultimo ha definito le comunità umane come “macchine desideranti”, un’altra definizione di antrorobotica.

Antrorobotica: qual è il confine tra umano e macchina?
Fonte: Flickr

Che ruolo ha l’Anthrorobotic Cluster in ciò? Da dove è nata l’idea e qual è la missione globale?

Ho creato il CRAG Research Gropu all’Università di Edimburgo nel 2014 per riunire ricercatori di diverse discipline intorno al tema della “creazione della realtà”. Allo stesso tempo, ho iniziato a scrivere una tesi di dottorato sul concetto di “spirito di corpo”, che è lo spirito di unità a volte percepito nei gruppi umani organizzati o nelle istituzioni.

Guardando con attenzione alla storia concettuale dello “spirito di corpo” a partire dal XVIII secolo, mi sono reso conto che un’istituzione umana potrebbe essere considerata come un robot collettivo (ciò che Lewis Mumford chiamò “megamacchina”).

Ho letto un manuale di robotica collettiva, la disciplina che studia gli sciami robotici, e mi sono divertito a scoprire che molte delle nozioni impiegate dai roboticisti e dagli ingegneri sono state adottate dalle scienze sociali. Ho organizzato una conferenza internazionale sul tema della “creazione della realtà” nel dicembre 2015, dove ho portato insieme come esempio Alan Bundy, uno specialista in intelligenza artificiale, e l’antropologo sociale Tim Ingold. Durante i nostri scambi, è spuntata nella mia mente la parola “antrorobotica”.

Naturalmente, il mio interesse nella filosofia della tecnologia è tutt’altro che nuovo. Nel 2010 ho pubblicato un saggio in francese sulla storia culturale delle macchine digitali, “L’art d’Être libres au temps des automates“, dove l’idea di antrorobotica è già presente, per esempio, nella distinzione tra “Creal” e “Real”. Forse sarebbe troppo lunga da spiegare qui. Al momento è stato richiesto un traduttore per renderlo disponibile a un pubblico inglese.

Nel 2008 ho pubblicato anche un romanzo, “Paridaiza“, che è completamente collocato in un videogioco, con domande simili in mente. Cosa ci rende umani in contrasto con i sistemi di intelligenza artificiale?

Ho deciso di creare l’Anthrobotic Cluster pochi giorni dopo la conferenza nell’inverno del 2015/16. Alan Bundy è una persona meravigliosa ed è stato gentilmente attento. Mi ha presentato a diversi roboticisti e informatici. Questo quando Michael Rovatsos e Ram Ramamoorthy sono saliti su questo strano asteroide dell’antrorobotica e sono stati d’accordo sullo scrivere un documento conoscitivo con me. Per un filosofo e scrittore è stato un privilegio essere adottato dalla comunità di informatici. Ho scoperto che spesso loro hanno istinti filosofici molto interessanti, radicati in problemi concreti e contemporanei.

A quali ricerche o progetti correnti stai lavorando – cosa c’è nell’immediato futuro?

Il primo documento sull’antrorobotica sarà presentato in ottobre alla Robophilosophy Conference 2016 all’Università di Aarhus e sarà pubblicato nei Programmi. Ho ricevuto un finanziamento dall’University of Edinburgh Institute for Academic Development per gestire un workshop e un gruppo di lettura sull’antrorobotica con gli studenti e lo staff di tutte le discipline.

Un primo workshop internazionale sull’antrorobotica è stato programmato per marzo 2017. Per questo sto collaborando con lo Human Centred Computing Group dell’Università di Oxford, dove ho iniziato a lavorare con la dottoressa Marina Jirotka, la dottoressa Helena Webb e il dottor Mark Hartswood. E sono stato appena scelto dal dipartimento di informatica dell’Università di Oxford per presentare una domanda al Templeton Indipendent Research Fellowship sulle nozioni di informazione come creatrice del mondo e antrorobotica. Ciò mi permetterà di approfondire la mia ricerca.

Presenterò il mio dottorato completato tra circa 6 mesi. Dopo mi piacerebbe continuare a lavorare non solo con gli informatici, ma con i biologi, i fisici, gli antropologi, gli scienziati sociali, gli psicologi per arrivare a una teoria generale sull’informazione come creatrice del mondo nei sistemi antrorobotici.

Come vedi il progresso della tecnologia nei prossimi anni (nel corso dei prossimi decenni?) e quali sfide affronteremo di conseguenza?

Ho letto molti titoli e articoli di futurism.com ogni giorno nel corso degli ultimi mesi e sono sia sopraffatto sia affascinato dalla turbolenza delle innovazioni tecnologiche e scientifiche che oggi sembrano essere fatte su base settimanale. Ma come ho detto, come molti altri hanno detto prima di me, siamo sempre stati animali tecnologici per definizione. Ogni generazione sente che la tecnologia si stia sviluppando in modo estremamente veloce e sospetto che questo sia stato – più o meno – sempre il caso.

Nel mio libro “L’être et le néon“, una storia culturale sulle insegne al neon, racconto del fascino che l’allora nuova tecnologia al neon aveva sui futuristi italiani negli anni intorno al 1910. Guardavano le insegne al neon come noi oggi guardiamo ai robot antropoidi. Non siamo solamente animali neotecnici che tendono ad aumentare i tratti giovanili fisici e psicologici. Ma siamo anche animali tecnotecnici*: abbiamo avuto un desiderio per la tecnologia dall’alba dei tempi.

Non voglio annoiare i lettori di questa intervista con la speculazione cosmologica. Ma ho il sospetto che l’universo sia una danza dialettica tra il “Creal” e l’Uno. Quello che chiamo “Creal” è un processo dinamico onnicomprensivo di esplosione di novità e possibilità, un’espansione cosmologica caotica. E l’idea di unità è l’esatto opposto. Vedo l’universo come una storia d’amore eraclitea tra l’assoluto-multiplo e l’assoluto-unità.

Noi come umani portiamo questa storia d’amore con noi. Il nostro amore per l’unità viene realizzato – diventa reale – come la tecnologia e i protocolli. Ma noi amiamo anche – consciamente o inconsciamente – la creatività del caos, il richiamo emotivo del selvaggio. Quindi non siamo mai totalmente robotici. Anche gli animali hanno questa opposizione in loro, ma non così estrema come gli esseri umani. Credo di essere ispirato a tali viste dai filosofi del processo come Bergson, Deleuze, Whitehead ed Hegel.

Come possiamo contribuire, come società e come individui, per rendere questo processo più agevole?

Riassumendo, direi che possiamo chiederci se la storia umana sarà mai tranquilla. Ma proviamo ad essere ottimisti. Possiamo di sicuro diventare consapevoli della nostra condizione antrorobotica per facilitare la dinamica dialettica delle nostre vite e diventare co-creatori piuttosto che adattatori alienati.

Quando dico che siamo anthrobot, è anche un’affermazione politica. È un invito a un maggiore pluralismo nel senso del pluralismo agonistico di Chantal Mouffe. Abbiamo bisogno di maggiore potenziamento tecnologico e scientifico democratico, la capacità per molti di diventare creatori di mondo dei nostri diversi ambienti futuri.


* Il termine originale adottato da Luis de Miranda è “technotenic“.


Nell’ultima parte dell’intervista emerge tutta la visione filosofica di Luis de Miranda. Ma il succo è tutto nella parte iniziale, quando descrive la definizione di robot per poi passare a quella di anthrobot. Gli anthrobot siamo noi umani con le nostre istituzioni che instauriamo diversi tipi di relazioni con le tecnologie. L’antrorobotica, dunque, è un approccio dove si considera l’interazione uomo-macchina come un processo di creazione del mondo.

Siamo animali tecnologici, lo siamo sempre stati. Ci siamo serviti della tecnologia e lo facciamo tuttora per sopravvivere e vivere meglio. Il filosofo portoghese sostiene che le società umane sono collettivi di robot. Per lui è più che una metafora. Suggerisce di considerare le relazioni tra umani e macchine come un’unità.

Ma in una tale fusione tra umani e macchine, in questa unità, come si fa a distinguere ciò che è umano da ciò che è macchina? Per comprendere questo rapporto, questo “intreccio”, è necessario un approccio interdisciplinare. Non è solo questione di ingegneria sociale e robotica, ma anche di etica, comunicazione, legalità e politica.

L’indagine del filosofo e dei sui colleghi si concentra sull’interazione tra il collettivo umano e quello robotico. Analizzare come comunichiamo con le macchine e perché può aiutarci a comprendere le dinamiche interne delle società. E anche a sviluppare sistemi intelligenti sempre più diversificati ed efficienti.

Tale comprensione ci porterà ad avere un ruolo attivo nelle società, di essere “co-creatori” anziché osservatori passivi del cambiamento. Ecco perché de Miranda afferma che l’antrorobitica riguarda anche la politica. Ha citato il pluralismo agonistico di Chantal Mouffe, il cui compito “non è di eliminare le passioni dalla sfera pubblica, in modo da rendere possibile un consenso razionale, ma di mobilitare queste passioni verso un progetto democratico“**.

I prossimi progetti di Luis de Miranda potranno dirci molto altro sull’antrorobotica. Vedremo cosa ne uscirà fuori e quali impressioni susciterà.

**Chantal Mouffe, The Democratic Paradox, Londra, Verso, 2000.

Fonte: Futurism

2 thoughts on “Antrorobotica: qual è il confine tra umano e macchina?”

  1. The right translation is not antrorobotica but antrobotica….
    Not anthrorobotics but anthrobotics (to insist on the symbiosis)

    and it’s tecnotenia (on the model of neotenia)

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