I cyborg sono già tra di noi. Solo che non sempre ce ne accorgiamo. La maggior parte di loro ha impianti cocleari e pacemaker. Qualcuno ha chip sotto pelle per connettere i dispositivi in casa e in ufficio. Ed è probabile che in futuro altre persone decideranno di ricorrere al biohacking.

Anche il biohacker Hannes Sjoblad è convinto che già viviamo nell’età dei cyborg. Lo ha ribadito in un suo intervento intitolato “Biohacking and the Connected Body“, che ha tenuto presso il Singularity University Global Summit.

Sjoblad è cofondatore della rete di biohacker Bionyfiken, un’organizzazione in cui hacker, maker, biologi e artisti di body art esplorano nuove forme di integrazione uomo-macchina. Nel suo intervento ha spiegato in generale cos’è il biohacking, in che ambiti viene adottato e cosa ci permetterà di fare in futuro.

 

Biohacking: come e perché

Sjoblad ha definito il biohacking come l’applicazione dell’etica degli hacker ai sistemi biologici. Alcuni biohacker fanno esperimenti sulla propria biologia con l’obiettivo di portare l’esperienza del corpo umano al di là dei limiti imposti dalla natura.

Certo, detto così suona inquietante. Ma osservando meglio di cosa si tratta, possiamo accorgerci che è meno peggio di quello che pensavamo.

L’intervento di Sjoblad al Singularity University Global Summit può aiutarci a comprendere meglio di cosa si tratta.Il biohacker svedese sostiene che i cyborg di oggi sono persone comuni che hanno inserito nel loro corpo dei dispositivi per controllare o migliorare alcuni aspetti della loro salute.

Impianti cocleari, sistemi intelligenti per il monitoraggio del livello di insulina, pacemaker e occhi bionici sono esempi di biohacking, secondo Sjoblad. “Viviamo in un tempo dove, grazie alla tecnologia, siamo in grado di far udire i sordi, far vedere ai ciechi, di far camminare gli storpi“, ha detto Sjoblad al pubblico. Egli sostiene che il biohacking ci permetterà di migliorare la qualità della nostra vita in modi diversi.

Uno dei settori dove il biohacking potrà rendersi utile è quello sanitario. I sistemi di monitoraggio dell’insulina e i pacemaker saranno affiancati da altre tecnologie che ci faranno stare meglio. E potremo accedere alle informazioni del nostro corpo ogni volta che vorremo.

Qualche esempio? Pillole che sfruttano tecnologia wireless per controllare le reazioni interne al nostro organismo dopo l’assunzione di farmaci. I dottori così possono essere sicuri dell’efficacia della cura e gestirla al meglio. Colonscopie ed endoscopie potranno essere sostituite da videocamere della grandezza di una pillola che trasmetteranno informazioni visive mentre attraverseranno il tratto digestivo.

Un altro settore di probabile applicazione del biohacking è quello della sicurezza. Sjoblad ha fatto un esempio: personalizzazione delle armi. Se un criminale si impossesserà di un’arma di un’altra persone non potrà usarla. Perché l’arma funzionerà solo se riconoscerà le impronte digitali del suo proprietario.

Ma più in generale, il biohacking potrebbe renderci più facili e immediate alcune cose della vita quotidiana. Lo stesso Hannes Sjoblad ha un chip NFC (Near Field Communication) impiantato nella sua mano. Il dispositivo gli consente di pagare, entrare in ufficio, usare i servizi della palestra e altre cose del genere. Ha tutte le chiavi di accesso nella sua mano.

Sjoblad vede il suo chip NFC come una chiave personale per l’internet delle cose. Un modo semplice per comunicare con i dispositivi intelligenti connessi alla rete che si trovano intorno a lui. Una comodità incredibile. Ma per quanto riguarda la privacy? I chip sono dotati di un sistema di protezione adeguato? La questione è che il biohacking è una disciplina relativamente nuova. Al momento gli sviluppatori sono più concentrati nel far funzionare la tecnologia in un certo modo.

D’altronde, questo discorso riguarda in generale l’internet delle cose: ci si preoccupa prima del mercato e poi della sicurezza. Ciò non significa che la comunità di biohacker tralasci del tutto il tema della protezione dei dati personali. Molto dipenderà, forse, da quale direzione prenderà il biohacking. Rimarrà un’applicazione di nicchia o man mano riuscirà a raggiungere un modesto numero di consumatori?

 

Altre storie di biohacking

Hannes Sjoblad non è l’unico a desiderare una maggiore connessione con l’ambiente che lo circonda. Ci sono altre persone che stanno sperimentando il biohacking e che desiderano trovare nuove forme di connessione e comunicazione.

Una di queste è il giornalista inglese Frank Swain. Quando scoprì che sarebbe diventato sordo, decise di “hackerare” il suo udito. Così sviluppò un software in grado di sintonizzarsi con i campi di comunicazione wireless e di sfruttare un sensore wi-fi per identificare il nome dei router, la modalità di crittografia e la distanza dai dispositivi. Questi dati vengono tradotti in suoni e inviati allo smartphone. A ogni segnale corrisponde un preciso suono o una precisa melodia che Swain può ascoltare attraverso i suoi apparecchi acustici.

L’artista spagnola Moon Ribas, invece, ha pensato di trasformare i flussi di dati globali in un’esperienza sensoriale. Attraverso un chip impiantato nel suo avambraccio, può collegarsi al sistema globale di monitoraggio dei sensori sismografici. Ogni volta che nel mondo avviene un terremoto, lei lo percepisce con delle vibrazioni nel suo braccio.

Se vuoi sentirti connesso col pianeta, North Sense è il dispositivo che fa per te. Si potrebbe definire come una sorta di organo sensoriale aggiuntivo che si collega al tuo corpo e che vibra ogni volta che ti rivolgi verso nord. Una vera e propria bussola corporea che ti aiuterà a ritrovare la via di casa se ti perderai.

Vale la pena citare anche le sperimentazioni del biohacker Amal Graafstra, il quale sta lavorando a un chip sottopelle per la crittografia. Il dispositivo si chiama UKI e verrà reso disponibile nel 2017. Graafstra spera che questa tecnologia possa rendere più concreta la possibilità di unire la nostra identità fisica con quella digitale.

Eh già, i cyborg sono già tra di noi da un bel po’ di tempo.

 

Il futuro del biohacking

Ripropongo la domanda: il biohacking riuscirà a farsi notare da una fascia di consumatori più ampia? Probabilmente nel corso degli anni si diffonderà sempre più. Avremo applicazioni utili, altre un po’ meno utili. Ma la maggiore adozione della tecnologia sarà accompagnata da un dibattito etico che vedrà sostenitori e oppositori. Fino a che punto sarà saggio hackerare la nostra biologia? Chi stabilirà le regole?

Alcuni potrebbero temere l’inserimento di un dispositivo nel proprio corpo. In quel caso è una scelta personale. Ma c’è chi pensa a scenari peggiori e incrementa le paure su queste tecnologie. Scenari dove criminali, pur di accedere alle informazioni personali delle loro vittime, arrivano a tagliare loro un dito o a strappare della carne per ottenere le impronte digitali. Fantascienza… Oppure no? Forse è un po’ improbabile.

In ogni caso, il problema della sicurezza è un problema che riguarda anche le tecnologie che ormai conosciamo bene. Le aziende cercano di sviluppare antivirus e protezioni sempre più efficienti. Allo stesso tempo i criminali informatici ideano nuove tecniche per aggirare i protocolli di sicurezza ed e violare la privacy.

Se non vorremo avere a che fare con questa tecnologia, quindi, credo che il problema della sicurezza sia solo secondario. Se respingeremo questa tecnologia sarà perché avremo paura di impiantarci chip nel corpo. Oggi questa paura è davvero consistente perché il biohacking è qualcosa di nuovo. Qualcosa di cui stiamo sentendo parlare solo di recente.

E ciò che non conosciamo bene o non conosciamo affatto incute sempre un po’ di timore. Anche se i cyborg sono già ovunque intorno a noi, come sostiene anche Chris Hables Gray, il biohacking rappresenta il nuovo. Vedremo col tempo se le percezioni nei confronti di questa pratica cambieranno. E vedremo anche come questa si evolverà.

Fonte: Singularity Hub
Fonte immagine: Flickr

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