La rivoluzione robotica è iniziata. Ormai ha poco senso chiedersi se riusciremo ad accettare o meno la presenza dei robot sul posto di lavoro o addirittura in casa. Perché già sta succedendo e in futuro non molto lontano non ci faremo nemmeno più caso.
In Giappone molte persone possiedono un cane-robot. Si affezionano così tanto alla macchina quadrupede che le organizzano un funerale quando smette di funzionare. O potremmo dire quando “muore”.
Com’è possibile legarsi così a una macchina? Le motivazioni sono varie e spesso la cultura è uno dei principali elementi di influenza. Questo legame irrazionale però, a quanto pare, è un tratto comune degli esseri umani. Lo ha scoperto Kate Darling del Massachusetts Institute of Technology’s Media Lab quando in un workshop ha chiesto alle persone di torturare il loro carissimo robot-dinosauro Pleo.
“Le persone non lo avrebbero fatto. Abbiamo dovuto minacciare che avremmo distrutto i dinosauri se non lo avessero fatto.”

Parte tutto da noi
Perché il più delle volte per le persone è difficile fare i cattivi con i robot? Darling ha risposto così alla BBC: “Abbiamo una tendenza naturale ad antropomorfizzare tutto e siamo programmati per rispondere al movimento realistico. Proiettiamo la nostra intenzione in esso e nei robot sociali che imitano i nostri movimenti, suoni, associamo inconsciamente con emozioni e sentimenti.“.
Si tratterebbe dunque di un meccanismo che scatta automaticamente, in modo quasi del tutto irrazionale. E ciò succede soprattutto con i robot umanoidi. Proprio su queste caratteristiche morfologiche giocano i produttori di robot. In questo modo le macchine risultano più simpatiche e i consumatori sono più propensi ad acquistarle.
Un esempio emblematico è Pepper, il robot socievole per la famiglia. È in vendita in Giappone e ha scatenato immediatamente la curiosità di molte persone. Ha un aspetto rassicurante ed è stato programmato per comprendere le emozioni umane.
Vincent Clerc, il quale ha guidato il progetto di Pepper, recentemente ha detto in una conferenza a Grenoble: “Vogliamo che le persone siano emotivamente collegate e coinvolte con i robot. Non vogliamo che un robot sia una semplice macchina come un aspirapolvere. Se sei stanco, appari stanco. E tu vuoi che un robot riconosca quando sei stanco.“.
Il ragionamento di Clerc non fa una piega. Avremo più possibilità di accettare la compagnia di un robot se questo sarà all’altezza di riconoscere le nostre emozioni.
Maschio o femmina?
Rendere un robot più simile a un umano significa anche conferirgli un genere. E questa scelta non è tanto facile quanto sembra. Soprattutto dal punto di vista di quei produttori che si preoccupano più delle vendite. Di solito pensiamo che gli uomini preferiscono robot maschi e le donne robot femmine, ma non è proprio così. Come accennato prima, la componente culturale ha un certo peso in questo contesto.
In Europa si preferisce di più il robot maschio o quello femmina? E in Asia? È difficile rispondere. Forse è più facile osservare quale ruolo assumono i robot in base al loro genere, o viceversa. La professoressa Kathleen Richardson della De Montfort University (Leicester), esperta di etica robotica, ha descritto una sorta di modello generale di preferenza. “I robot maschi tendono ad essere robot esploratori o robot da guerra, mentre i robot femmine sono attraenti e giocano un ruolo nel settore dei servizi come receptionist o cameriere.“.

L’aspetto più interessante, però, è questo: “Chiedete agli scienziati perché hanno assegnato un genere particolare e vi diranno che non c’era nessuna intenzione volontaria, ma non è vero, non è una scelta innocente. Si tratta di una decisione presa in base alla propria esperienza con il mondo.“. I robot sono creati da umani e di conseguenza anche nel loro sviluppo proiettiamo in essi una parte di noi. Spesso ricorriamo a stereotipi per renderci la vita più facile. E questi stereotipi finiscono anche col determinare il genere e il ruolo di un robot.
Ma stereotipare, ovvero creare modelli convenzionali, significa anche semplificare e generalizzare. Il che non sempre è una cosa positiva. Gli stereotipi di genere, poi, sono anche peggio. Kate Darling ha raccontato un episodio che l’ha mandata in bestia. Era in Texas per visitare la piattaforma di intelligenza artificiale (IA) Watson, della IBM. “C’era una seconda IA nella stanza. Accendeva le luci e ringraziava i visitatori, e aveva una voce femminile – mi faceva impazzire.“. In effetti, se facciamo un giro anche solo virtuale in questo settore, possiamo renderci facilmente conto che spesso l’intelligenza artificiale è femminile.
Secondo Darling, gli sviluppatori dovrebbero pensare meglio al genere e all’aspetto dei robot per evitare “ulteriormente di radicare gli stereotipi correnti“. Bisognerebbe rompere qualche schema, ecco. Non sarà facile per i grandi produttori che devono cercare di raggiungere un certo tipo di pubblico. Però credo che provare a cambiare ogni tanto non farà male a nessuno. Anzi, forse così potremo fare delle scoperte inaspettate sul nostro approccio con i robot e sui nostri processi psicologici. La butto là: un robot androgino?
Le narrazioni e la convivenza con i robot
A volte le macchine assumono parte dei nostri pregi e difetti. Siamo molto bravi a raccontarlo attraverso libri e film come “2001: Odissea nello spazio” e “Blade Runner”. Qui ti aspettavi la classica citazione di “Terminator”, vero? In realtà qui ci starebbe bene perché il prossimo interrogativo riguarda i robot cattivi. La domanda è: perché nelle narrazioni letterarie e cinematografiche tendiamo a inventare robot che ci somigliano molto e che poi finiscono col tradirci?
Una prima risposta, certo plausibile, potrebbe essere “intrattenimento“. Sono storie che devono colpirci, metterci in difficoltà, farci incuriosire. A volte devono farci anche un po’ paura, o quanto meno devono spingerci a porci qualche domanda sullo stato attuale della tecnologia e sul nostro futuro. Sono stati anche inventati robot buoni e gentili, come Andrew nell'”Uomo bicentenario” e C3PO di “Star Wars”, ma ricordiamo meglio quelli cattivi.
Una seconda risposta la fornisce la professoressa Jodi Forlizzi, dell’US Human-Computer Interaction Institute. Lei sostiene che dipende tutto dalla natura umana: “Penso che creiamo narrazioni e storie che riguardano tutto nel mondo: persone, robot, spiriti, zombie, eccetera che ci mettono in opposizione con loro.“. Creiamo queste opposizioni per rappresentare i nostri dubbi, le nostre paure, i nostri traguardi, i nostri limiti. E finiamo col rappresentare noi stessi.
Ecco perché molti esperti sostengono che non sarà un problema convivere con i robot. Tra questi vi è il professore di legge all’University of Washington Ryan Cato. Lui pensa che accetteremo i robot nelle nostre case, nei nostri uffici e nelle nostre auto perché la loro utilità sarà molto superiore alle nostre incertezze. Probabilmente in futuro avremo anche bisogno delle regole per il loro trattamento. “Questi robot ci sembrano delle persone e non c’è nessuna legge che riguarda quella relazione tra un umano e un oggetto. Siamo in uno strano inferno.“. È un aspetto che ha fatto notare anche Aubrey de Grey, famoso biochimico inglese.
Il professor Cato ha evidenziato anche un’altra interessante questione. “Questi dispositivi possono rendere la vostra vita migliore, ma vi ascoltano anche sempre passivamente e hanno una presenza fisiologica. Saranno nelle nostre case, nelle nostre auto, e non vi sentirete mai soli, il che non è mai una cosa sempre buona, sia psicologicamente sia spiritualmente.“. La costante presenza dei robot o la sua semplice percezione influirà sul nostro comportamento. Ma credo che questo sia un problema facilmente risolvibile. Non dimentichiamo che ogni macchina può essere accesa e spenta in base alle nostre esigenze. Il pulsante On/Off sarà la nostra salvezza. Forse.
Fase 1: siamo solo all’inizio
Il 2015 sarà l’anno dei robot domestici. È stata una previsione azzeccata, a mio parere. Mancano ancora un paio di mesi alla fine dell’anno, ma è già possibile fare un breve resoconto. Quest’anno, infatti, abbiamo notato un incremento nello sviluppo di robot da utilizzare in casa e un aumento dell’interesse generale nei loro confronti. Oltre Pepper, altri robot come Luna, Romeo e PR2 hanno dimostrato che in futuro potremo aver bisogno del loro aiuto. Potranno aiutarci nelle faccende di casa o semplicemente farci compagnia.
Per quanto sofisticata possa sembrarci la tecnologia adottata per la costruzione di questi robot, siamo ancora in una fase iniziale. Ed è proprio questa fase iniziale che preoccupa e allo stesso tempo entusiasma molte persone, esperte e non. Possiamo definirla come una fase di ricerca, sperimentazione e scoperta. Per progredire e produrre benefici non dobbiamo temere gli sviluppi dell’intelligenza artificiale. Dobbiamo invece affrontare ogni sfida che ci si presenta davanti come un’opportunità per migliorarci e per migliorare il mondo in cui viviamo.
Oggi questi robot sono passivi, ma un domani? Chi lo sa.